Alzi la mano chi, almeno una volta al mese, o forse anche più, non si sente vittima dell’insicurezza. Siamo sicuri che di mani alzate, tra voi che state leggendo, ce ne saranno sicuramente tante perché l’insicurezza è molto democratica: colpisce tutti. Anche chi insicuro non sembra affatto, ma millanta una convinzione e un’autostima quasi da fare invidia.
Lasciando stare il contesto personale e concentrandoci più che altro sul mondo del lavoro, possiamo riconoscere 3 tipi di insicurezza molto frequenti che non è facile affrontare.
Proviamo a capire quali sono, come individuarli e com’è possibile affrontarli. E questo anche grazie all’aiuto del business coaching.
Prima di tutto, però, vediamo cosa si intende per insicurezza e come nasce.
Cosa si intende per insicurezza
Stando a quanto suggerisce GuidaPsicologi, l’insicurezza è quel sentimento di inadeguatezza che dà la sensazione di non essere abbastanza bravi nel fare qualcosa. Ma non solo: l’insicurezza porta a non sentirsi all’altezza delle situazioni che si stanno affrontando o che si potrebbero affrontare.
Le persone particolarmente insicure sono per forza di cose ansiose perché temono di non riuscire a raggiungere gli obiettivi prefissati – o che magari hanno concordato con la propria azienda -, di non sapersi relazionare con gli altri ecc….
Nel mondo del lavoro questo si potrebbe tradurre, per esempio, nell’ansia di dover lavorare con dei nuovi colleghi o in un nuovo progetto così come nel pensare di non essere capace di gestire un team.
Avere delle insicurezze nel corso della vita è normale, ma è quando queste diventano “invalidanti” o portano a stare male che bisogna drizzare le antenne, individuarne i sintomi e capire come venirne a capo.Sebbene ogni persona sia diversa, secondo la psicologa Melanie Greenberg ci sono 3 tipi di insicurezza comuni a tutti. Vediamo quali sono.
Suggerimenti e spunti per sfruttare al meglio ChatGPT quando scrivi le e-mail
Insicurezza dettata da un fallimento recente o da un rifiuto
Pensate a tutte le volte in cui eravate certi di portare a termine un progetto ma non è stato così o quando eravate sicuri che avreste vinto la gara per ottenere il lavoro con quel cliente e siete rimasti con un pugno di mosche. O, ancora, quando avete fatto di tutto per avere quella promozione e vi siete scontrati con un no perentorio. Sono tutte situazioni in cui a pesare è la parola “fallimento” e hai voglia a sentirsi dire che il fallimento è necessario, che aiuta a crescere e tutto il resto: quando si verificano tali situazioni, l’umore vacilla e così anche la fiducia in sé stessi. Certo, ci sono fallimenti molto più gravi, come per esempio la fine di una relazione o eventi negativi legati alla salute. Così come un momento particolarmente grave nella vita di ciascuno di noi è quando bisogna convivere con la perdita di una persona cara.
Al di là di questi eventi che possono prevedere un percorso diverso – spesso terapeutico – nel caso dei fallimenti sul lavoro, ogni rifiuto, ogni cosa che non è andata come ci aspettavamo, mina la nostra solidità e porta a modificare l’immagine che abbiamo di noi stessi. In particolare, se questi eventi si verificano l’uno di seguito all’altro.
Come fare quindi a superare tutto ciò?
La psicologa Melanie Greenberg consiglia di:
- concedersi il tempo per “guarire” e adattarsi alla nuova normalità, ossia al fatto che quel cliente è “andato” o che la promozione per ora non è arrivata;
- uscire e “impegnarsi” a vivere seguendo i propri interessi e la propria curiosità. A volte si pensa che la vita sia finita, ma se la si “lascia entrare” ci si accorge che non è così;
- stare con amici e familiari per avere conforto e occasioni di distrazione;
- chiedere il parere a persone di cui ci si fida;
- non abbandonare i propri obiettivi e perseverarenel raggiungerli;
- se necessario, magari pensare a una strategia diversa.
Inoltre, può essere di supporto un percorso di coaching che può aiutare a ridefinire gli obiettivi, capire i propri punti di forza e magari individuare quella nuova strategia di cui parlavamo prima.
Mancanza di fiducia in sé stessi per via dell’ansia sociale
Bello andare alle feste, partecipare alle riunioni di famiglia, cenare con gli amici ecc… sì, ma fino a un certo punto. Non tutti amano stare in compagnia e questo non perché non vogliano divertirsi ma perché convivono con il cosiddetto “disturbo d’ansia sociale” anche chiamato “fobia sociale”.
Di cosa si tratta? Stando al Manuale MSD (una delle risorse di informazioni mediche più utilizzate al mondo), è un’ansia legata al fatto che una persona ritiene che le sue attività o azioni in pubblico possano essere inappropriate. C’è chi, infatti, quando si trova su un palco, a mangiare con gli altri o a fare conversazione, teme di sentirsi imbarazzato, umiliato, rifiutato o di offendere chi ha davanti.
Tutto questo perché pensa di non riuscire a soddisfare le aspettative altrui o di essere continuamente sotto esame.
Senza entrare troppo nel dettaglio, un’insicurezza simile può essere dovuta a una o più esperienze vissute, sia da bambini che da adolescenti, i cui effetti sono visibili anche oggi. Si basa comunque su convinzioni distorte riguardo alla percezione di sé e a come gli altri ci valutano. Anche perché di solito le persone sono più attente a come si presentano che al giudizio altri e chi invece preferisce criticare lo fa per nascondere le proprie insicurezze, ma non è detto che elabori un parere oggettivo.
Come ovviare a ciò?
Secondo la psicologa è importante:
- ricordare a noi stessi tutti i motivi per cui piacciamo alle persone o ci trovano interessanti e divertenti;
- prepararsi in anticipo a eventuali conversazioni. Per esempio magari “ripassando” i film visti, i libri letti, gli hobby ecc… E quando si parla in pubblico per lavoro, preparare il discorso dall’inizio alla fine, magari aiutandosi con un coach o frequentando un corso di public speaking;
- “forzarsi” a fare le cose. Cosa significa? Che evitare le situazioni sociali fa aumentare l’ansia per questo meglio andare a un appuntamento anche se si è nervosi. Magari la prima e la seconda volta si è particolarmente agitati, ma la terza un po’ meno e così via;
- porsi un obiettivo realistico e limitato. Qualche esempio? Se si va a una cena con tanta gente, cercare di parlare con due nuove persone oppure di scoprire di più sugli hobby di una determinata persona;
- concentrarsi molto sugli altri – e farlo di proposito – per evitare di pensare a sé stessi. Notare cosa le persone provano e cosa fanno può aiutare persino a riconoscersi negli stessi atteggiamenti. Attenzione: notare non vuol dire giudicare, ma semplicemente osservare.
Insicurezza dettata dalla mania di perfezione
Essere perfetti, brillanti, capaci di fare tutto è l’aspirazione di molti, ma la vita è imprevedibile e tutto quello che magari vogliamo per noi, non è detto succeda semplicemente perché… è fuori dal nostro controllo. Ricercare la perfezione senza fare i conti con quanto abbiamo appena detto può far sentire insicuri, indegni di vivere una determinata situazione e generare forti stati d’ansia.
Aggiungo inoltre un pensiero che ho fatto mio nel corso degli anni: la parola “perfetto” viene dal latino perfectum, participio passato di perficio che significa“compiere”. Perfetta è quindi una cosa “compiuta” che, come tale, è una cosa finita, ossia che è giunta al suo termine, vale a dire “morta”. Invece la vita è tutto l’opposto, è evoluzione, cambiamento, scommessa ecc… quindi ricercare la perfezione, a mio avviso, vuol dire anche un po’ “morire” dentro quella cosa, cristallizzarsi.
Ritornando a quanto suggerisce la psicologa, quando si vive un’insicurezza dettata dalla ricerca di perfezione a tutti i costi, i suggerimenti sono:
- cercare di valutarsi in base all’impegno che si mette in qualcosa e non al risultato che si ottiene. Perché? Perché il primo è misurabile e controllabile, il risultato dipende anche da fattori esterni;
- ricorda che il perfezionismo porta a vedere tutto bianco o nero, ma magari si può provare ad analizzare la situazione in base alle sfumature. Esiste un modo più empatico di guardare al tutto? Si tiene conto delle circostanze esterne quando ci si valuta? E cosa si è imparato anche quando il risultato finale non era perfetto?
- rammentare che i perfezionisti hanno a che fare con un’autostima molto condizionata da quello che succede: quando tutto va bene si piacciono, quando non è così non si sopportano. E invece si può provare a piacersi anche quando le cose non vanno bene, concentrandosi sulle proprie qualità interiori, i propri valori, le cose che si sono ottenute e così via.
Anche in questo, un percorso con un coach può essere di grande aiuto. Per esempio può dare una grossa mano nel facilitare il processo di adattamento a nuove sfide e cambiamenti, interiori, e in mezzo agli altri, può aiutare ad avere maggiore consapevolezza, come ci ha spiegato la coach Valentina Di Marco. E a raggiungere i propri obiettivi personali, tra cui, per esempio, ci può essere il mitigare le 3 insicurezze più comuni.
Vuoi saperne di più?