Comunicazione inclusiva in azienda: perché è importante parlare a tuttə?
Un linguaggio capace di comprendere e nominare tutte le differenze riconoscibili nelle persone che formano un gruppo sociale, come chi è dipendente di un’azienda, è capace di accrescere il senso di appartenenza a quell’organizzazione. Per approfondire l’importanza della comunicazione inclusiva in azienda, abbiamo intervistato Vera Gheno, sociolinguista, scrittrice, per vent’anni collaboratrice dell’Accademia della Crusca e ora collaboratrice di Zanichelli. Le abbiamo chiesto, in particolare, cosa si intende per comunicazione inclusiva, quali sono le opportunità del suo utilizzo, i rischi del suo mancato utilizzo e, per concludere, le abbiamo chiesto di dare qualche consiglio pratico a chi si occupa di comunicazione interna e di cultura aziendale.
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Partiamo dall’inizio. Cos’è la comunicazione inclusiva?
La comunicazione inclusiva nasce dall’idea che in una società convivono tante differenze. Ed è quel tipo di comunicazione che tiene conto di tali diversità, che tenta cioè di non escludere nessuno dalla comunicazione e di comprendere tutti, senza offendere. Anche nel senso di riconoscere l’esistenza di un determinato gruppo, attraverso la lingua. Pensiamo per esempio a tutte quelle professioni a cui, tradizionalmente, le donne non avevano accesso: utilizzare i nomina agentis, cioè i nomi professionali, al femminile, come ingegnera e avvocata, è un modo per riconoscere l’esistenza delle donne impegnate in quelle professioni.
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Una comunicazione inclusiva per creare, quindi, più inclusività?
In un certo senso sì, ma in realtà, parlare di inclusività è già, di nuovo, discriminante. Recentemente ho conosciuto un advocate dei diritti delle persone autistiche, Fabrizio Acanfora, e grazie a lui ho aperto gli occhi sulla questione: quando usiamo il termine inclusività, presupponiamo che ci sia qualcuno che include e qualcuno che viene incluso, dunque utilizzando il termine, riproduciamo linguisticamente lo squilibrio tra chi è normale, chi include, e chi non è normale, e quindi viene incluso. Pierpaolo Pasolini diceva lo stesso della parola tolleranza, perchè presuppone che io sia nel giusto e tu no. Tolleranza e inclusione sono atti paternalistici che vengono dall’idea che ci sia qualcuno dall’alto che deve includere qualcun altro. Ecco perché, più che di comunicazione inclusiva e di inclusività, si sta cercando una soluzione alternativa un linguaggio capace di restituire e rappresentare una “convivenza delle differenze”.
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Come si riconosce questo linguaggio capace di rappresentare questa convivenza delle differenze?
Questo linguaggio nomina le diversità nel modo corretto. Per esempio, usa “afrodiscendente” per una persona di origini africane, non “nero”, dato che la sua “nerità” è, di fatto, irrilevante. Allo stesso modo, se ho a che fare con maschi e femmine, cerca, attraverso le parole, di dare risalto alle une e agli altri: se c’è una donna a dirigere, la chiamo direttrice, se l’avvocato è donna, la si chiama avvocata. Se abbiamo un dubbio, basta chiedere alla persona che abbiamo di fronte. Sofia Righetti, advocate per le persone con disabilità, preferisce essere chiamata con un approccio person-first, e dunque “persona con disabilità”; mentre Fabrizio Acanfora, che ho nominato prima, preferisce un approccio identity-first, e dunque preferisce farsi chiamare “disabile” o “autistico”. In molti casi questo linguaggio presuppone l’ascolto delle minoranze, per utilizzarlo basta ricordarsi che quando abbiamo un dubbio su come riferirci a una persona, basta chiedere a lei come preferisce essere chiamata.
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Perché la lingua deve cambiare?
La consapevolezza arriva via via che anche la mentalità delle persone cambia. Trent’anni fa, quando in Italia c’era ancora una forte mentalità coloniale, era normale che la persona con un background migratorio fosse chiamata “il marocchino” o “il negretto”. Quando cambia la percezione sociale dei fenomeni, cambia anche la lingua. Nella questione femminile, per esempio, conta molto la conquista di posizioni apicali e professioni a cui prima le donne non avevano acceso. Davanti a un simile cambiamento sociale, di presa di coscienza femminile delle proprie potenzialità e opportunità, la lingua si è adeguata.
Ph. Erika Fregolent
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Quali sono le modalità a oggi più utilizzate? In italiano e in altre lingue?
L’approccio delle varie lingue nei confronti dell’inclusività linguistica dipende dalla struttura e dalla morfologia della lingua stessa. Il Parlamento Europeo elenca tre tipi di lingue che esistono in Europa: ci sono lingue gendered, con il genere grammaticale, come l’italiano che ha femminile e maschile e non il neutro; le lingue natural gender, che non hanno il genere grammaticale, ma hanno i pronomi maschili, femminili e neutri, come l’inglese; e le lingue gender neutral, come le lingue ugrofinniche dove nè sostantivi e pronomi hanno genere. A seconda del tipo di lingua si possono ci sono delle differenze nel modo in cui il linguaggio diventa inclusivo. L’inglese, per esempio, tende a usare, ove possibile, forme neutre sia nei nomi sia nei pronomi, per cui per una persona che non ama definirsi né he né she, preferirà il singular they.
L’italiano è super creativo. Quando ci rivolgiamo a una moltitudine varia, alcuni preferiscono aggiungere, utilizzando per esempio “tutte e tutti”, escludendo però così le persone di genere non binario. Altri usano soluzioni creative, la u, la x, la @, togliendo la vocale finale a nomi e pronomi o unendo le vocali “ei”. Io preferisco lo “ə”, lo schwa, una vocale media, un simbolo fonetico internazionale che ha anche il vantaggio di essere nativo di molti dialetti italiani, come il napoletano. È vero che è difficile pronunciare ed è abilista, nel senso che è difficile da leggere per chi la dislessia e, poiché i sintetizzatori vocali non lo leggono, è illeggibile anche per ipovedenti e non vedenti. Io lo intendo come punto di partenza: in questo momento, anche solo un simbolo imperfetto è un segnale di un’attenzione verso chi non è attualmente rappresentato dal linguaggio. In tante altre lingue si sta ragionando sulla questione. Non solo al femminile, ma anche per le altre minoranze, con accelerazioni e decelerazioni a seconda della società. Se c’è uno stigma sociale forte, la lingua non può precedere, ma può solo seguire.
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La critica che viene mossa più spesso a questo punto è che scrivere o utilizzare un italiano misto a questi simboli rende la comunicazione meno chiara…
Prima ancora della chiarezza, per me viene la valenza identitaria della lingua. Noi che siamo totalmente rappresentati dalla lingua facciamo fatica a vedere che chi ha un’identità diversa non è rappresentato. E quindi lo vediamo come una complicazione. Bisogna trovare l’equilibrio tra economia linguistica e rispetto per le identità altrui. Secondo alcuni studi le persone che non si riconoscono nel binarismo di genere sono il 2% della società, dunque non è un fenomeno residuale, non è vero che la questione non sussiste, se fa star male il 2% della mia popolazione linguistica.
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Quali opportunità esistono per le aziende nell’adottare una comunicazione inclusiva?
È fondamentale per il benessere dell’azienda che le persone che ci lavorano si sentano viste, prese in considerazione, anche linguisticamente. Sperimentare l’inclusività in azienda, inoltre, può dare l’esempio in favore di un cambiamento di mentalità nella società intera. Noi guardiamo con plauso le aziende della Silicon Valley perché hanno le quote di diversità e, allo stesso modo, è giovato all’Università di Bologna decidere di declinare al femminile tutti i titoli sui loro siti: qualcuno all’interno ha storto il naso, però intanto l’atteggiamento con cui l’università si presenta all’esterno è positivo e diventa motivo di attrazione.
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Quali consigli potresti dare agli HR per rendere la propria comunicazione più inclusiva?
Nella comunicazione scritta il primo passo sarebbe usare la doppia forma, tutti e tutte, o lo schwa alla fine delle parole. Un’accortezza che possiamo assumere è cercare dove possibile di usare delle riformulazioni, “coloro che”, “le persone che”, trovando una forma semanticamente neutra. Poi dipende molto dalla cultura aziendale, sappiamo che una startup comunica diversamente da una grande azienda, quindi le scelte devono essere anche allineate alla cultura aziendale. Un’attenzione importante è quella da mantenere nell’attività di recruiting, quando cioè l’azienda si apre in un rapporto individuale con una persona nuova, che non conosce e che deve inserire al meglio. Qui diventa importante quanto suggerivo all’inizio della nostra chiacchierata, cioè di implementare la parte di ascolto, chiedendo come l’altra persona desidera che le si riferisca. Iniziare a pensare a una forma iniziale di colloquio di lavoro in cui una delle domande standard né: come la devo appellare? Come fanno gli americani quando chiedono a chi interviene come speaker agli eventi di indicare, tra parentesi, i pronomi che desidera che vengano utilizzati al suo indirizzo.
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