Great Resignation: dagli USA all’Italia perché c’è chi lascia il lavoro senza avere altro
Qualcuno le chiama Grandi Dimissioni traducendo direttamente dall’inglese la coppia di parole Great Resignation, qualcuno, spostando più il focus sulle imprese, parla di fuga delle aziende.
Comunque sia, si tratta di un fenomeno con cui bisogna fare i conti, che è sicuramente figlio della pandemia ma non solo: anche di quel mondo del lavoro che abbiamo portato avanti negli anni precedenti e che forse invece di essere esploso è addirittura imploso.
Orari stringenti, obiettivi spesso al di fuori della portata delle persone, spesso non condivisi e ancora: poca attenzione al benessere dei dipendenti o la convinzione che l’ascolto e il dialogo debbano venire sempre dopo la produttività.
Ma di cosa parliamo quando parliamo di Great Resignation? Ed è davvero un fenomeno o è ancora in nuce? E soprattutto riguarda anche l’Italia?
Cerchiamo di fare il punto in questo articolo partendo con lo spiegare cosa si intende per Great Resignation.
Il significato di Great Resignation
Come spesso accade, è una tendenza, possiamo di fatto definirla così, che è stata “scoperta” negli Stati Uniti dove si parla anche di Yolo Economy, ossia di quella parte di popolazione che al grido di “Si vive una volta sola” (You Only Live Once) decide di buttarsi in altri progetti, magari come libero professionista.
Le grandi dimissioni (detti anche Big Quit) e la Yolo Economy tradiscono di fatto quello che sta succedendo alle persone che, a causa della crisi scatenata dall’emergenza sanitaria, si sono rese conto che tutto ciò in cui credevano e portavano avanti aveva poco valore rispetto alla possibilità di morire per colpa di un virus.
Se il Covid-19 dunque ha portato a una crisi economico-sociale che era difficile prevedere, c’è l’altro lato della medaglia, quello di chi, cioè, ripensando alla propria modalità di lavorare, al fatto di avere scelto un’azienda in cui magari non crede più o dove non può crescere, decide di licenziarsi.
E non per andare in un’altra azienda, o quantomeno non sempre, ma sostanzialmente per migliorare quella vita che ha capito essere breve.
A volte dunque tale scelta può coincidere con un ricollocamento, ma spesso non è così: le persone fanno un vero e proprio salto nel buio. O magari nella luce, se finalmente ascoltano se stesse, ritrovando il loro “purpose” (scopo) personale e provano a fare un lavoro che sia in linea con questo.
La Great Resignation negli Stati Uniti
Un fenomeno che deve essere tenuto in considerazione perché può avere profonde ripercussioni sul mercato del lavoro rendendolo meno attivo e meno fluido.
I numeri, come quelli di uno studio di McKinsey, infatti fotografano una realtà che negli Stati Uniti ha portato più di 19 milioni di lavoratori a lasciare il lavoro dall’aprile 2021. Un ritmo record che ha sconvolto e continua a sconvolgere le aziende che hanno provato a correre ai ripari offrendo uno stipendio più alto, maggiori benefit aziendali e così via.
Solo che sempre stando ai numeri, il 40% delle persone ha rassegnato le dimissioni senza avere qualcosa di nuovo “tra le mani”: non l’ha fatto pertanto per cercare un maggior guadagno o una nuova occasione di carriera, ma perché non si sente sente apprezzato o perché non prova più un senso di appartenenza all’azienda.
La Great Resignation in Italia
In tutto questo ha anche un peso il fatto di non riconoscersi più in un mondo del lavoro che, in molti casi, tende a “restaurare” anziché a prendere il meglio di quello che la pandemia dovrebbe averci insegnato. Se infatti ci sono aziende che hanno sperimentato forme di lavoro ibrido (smart working + ufficio) ce ne sono altre che invece hanno pensato di riportare le cose a com’erano prima, senza tenere conto che non tutti sono disposti a farlo.
Stando a una ricerca condotta nel settembre 2021 da Mindwork insieme a Doxa sul benessere psicologico, il 40% degli intervistati ha riconosciuto tra le principali preoccupazioni relative al rientro l’impossibilità di gestire il proprio tempo. Così come il 40% si è detto preoccupato da un rientro a tempo pieno in ufficio e il 20% ha asserito di essere pronto a cambiare lavoro se costretto a rientrare full time.
Altri numeri fotografano il fenomeno della Great Resignation in Italia. Nonostante il blocco dei licenziamenti, stando a quanto riporta il Corriere, ben 480 mila Italiani hanno deciso di lasciare il lavoro tra aprile e giugno, ossia un quarto del totale delle cessazioni del rapporto di lavoro.
Alcuni suggerimenti per le aziende
Numeri che, però, detti così servono a poco. Bisogna infatti riflettere su quello che sta accadendo e comprenderlo analizzandolo da dentro. Per le aziende è importante essere consapevoli che la nuova concorrenza non è più solo data da imprese dello stesso settore o presenti in altri mercati, ma dalla vita stessa. Ed è per questo che bisogna prestare in primo luogo attenzione ad ascoltare cosa le persone stanno vivendo, cosa pensano e come si trovano nella situazione attuale cercando di trovare un punto d’incontro.
Se infatti le persone perdono la motivazione, se si sentono pressate quando pensavano di aver conquistato un lavoro per obiettivi, se devono nuovamente correre da una parte all’altra perché devono rientrare in ufficio in giorni stabiliti o per tutta la settimana, questo può incidere su un equilibrio che per tutti è ancora molto fragile. Così come bisogna pensare a quei genitori che avevano trovato il modo di gestire tutto, incastrando ogni cosa alla perfezione e tornando invece in azienda, devono riprogrammare ogni cosa. E spesso questo cambiamento non riguarda solo loro, ma tutte le persone della famiglia.
Senza dimenticare chi ha optato per tornare a vivere nel paese d’origine dove ci sono i genitori che aiutano con i figli o chi magari ha lasciato la città per andare a vivere in un posto che ritiene più adatto a lui/lei o in una casa più grande e meno costosa.
Tutti aspetti che non possono essere cancellati da un giorno all’altro, anzi: è bene che gli HR favoriscano momenti di condivisione e confronto con dipendenti e collaboratori e che pensino alla riprogettazione degli spazi di lavoro, sì, ma anche degli strumenti e delle modalità di lavorare.
Tutto questo non viene solo incontro al sentire delle persone, ma le può portare a essere più produttive e anche più accountable, ossia responsabili di quello che fanno.