Quote rosa in azienda: a cosa servono?

Anzitutto, non chiamiamole quote rosa. La legge, italiana ed europea, parla di “gender quotas” per indicare una modalità per rappresentare equamente i diversi generi nei vari segmenti della classe dirigente di un Paese o di un’organizzazione. Non solo nelle aziende, infatti, si parla di quote di genere, ma anche in politica e nella pubblica amministrazione. Perché ‘rosa’ allora? Perché, nonostante costituiscano più della metà della popolazione, le donne sono ancora le meno rappresentate nella classe dirigente italiana, in azienda e in parlamento. A prescindere dal nome, a dieci anni di distanza dalla prima legge italiana sulle quote di genere, facciamo il punto su qual è il loro obiettivo, sui risultati che hanno raggiunto e, soprattutto, ci chiediamo: sono servite o servono ancora?

Quote di genere in azienda: facciamo il punto a 10 anni dalla prima legge

La prima legge italiana sulle quote di genere, conosciuta come legge Golfo-Mosca, è stata varata nel 2011. Tale legge ha stabilito che il genere meno rappresentato, nei consigli d’amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate in borsa e di quelle a controllo pubblico, dovesse costituire almeno il 20% dei membri eletti. Tale quota è stata innalzata al 30% nel 2015 e al 40% nel 2019. Per quanto riguarda la politica, la legge elettorale, conosciuta come Rosatellum, ha fatto sì che la percentuale femminile dei seggi in Parlamento dovesse essere almeno il 35%, la più alta mai raggiunta finora in Italia. L’obiettivo delle gender quotas è infatti quello di sanare lo squilibrio di rappresentanza tra i generi e di riportare una parità che, da sola, non ci sarebbe.

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Una situazione per niente… rosea!

Tuttavia, benché sia donna il 51% della popolazione italiana, le donne nella nostra classe dirigente non sono rappresentate neanche lontanamente allo stesso modo. Secondo il report “Le donne ai vertici delle imprese, 2020”, realizzato da Cerved e Fondazione Marisa Bellisario, in collaborazione con Inps, infatti, grazie alla legge Golfo-Mosca, nel 2019 le donne sono state il 36,3% nei CdA e 41,6% nei collegi sindacali. Ma, dopo il forte aumento seguito alla piena attuazione della legge, dopo il 2019 la crescita ha subito un rallentamento. Inoltre, sono poche le società quotate andate oltre il minimo imposto e sono altrettanto poche le donne che occupano le posizioni più alte: solo 14 amministratori delegati sono donne (6,3%) e 24 le presidenti (10,7%). Infine, i dati indicano che l’incremento della quota di donne nel CdA non si è tradotto in una crescita della rappresentanza femminile nelle posizioni apicali o tra le occupazioni a più elevato reddito, né ha promosso una maggiore presenza di donne nelle società non quotate.

Secondo il World Economic Forum, il nostro Paese è al 76° posto per disparità di genere sui 149 censiti. L’unica cosa che, dal 2006, ci ha consentito di guadagnare una posizione, è stata proprio l’introduzione delle quote di genere nella composizione delle liste elettorali. È sempre lo stesso indice a rivelare che in Italia è occupato solo il 56,2% delle donne tra i 15 e 64 anni, contro il 75,1% degli uomini; nel 2020, inoltre, il 99% di chi ha perso il lavoro per le conseguenze economiche della pandemia è donna; ed è fermo a 157 giorni il tempo che occorrerebbe per colmare il gender pay gap tra uomini e donne nel nostro Paese. Persino la nostra lingua, al plurale, tende a parlare al maschile escludendo, di fatto, più della metà delle persone che la parlano.

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Perché le quote rosa servono (ancora)

“La storia del mondo del lavoro è a misura d’uomo” ha commentato la Presidente di Poste Italiane intervistata da Alley Opp Il Sole 24 Ore sul tema. Secondo Farina, le quote di genere hanno avuto il merito di forzare il sistema aprendo la possibilità a molte donne di arrivare laddove il merito e le competenze non sono riuscite. È un dato di fatto che, a parità di istruzione e di esperienza, le donne sono sottopagate e non raggiungono le stesse posizioni degli uomini.

È riuscita a centrare pienamente il concetto Michela Murgia che, in un recente post su Instagram dedicato alle quote rosa, ha detto “Chi detiene un privilegio non lo cederà mai spontaneamente”, andando a sottolineare come introdurre delle forzature, come possono sembrare le quote di genere, è necessario per aprire la strada al cambiamento. Lo sottolinea anche l’Onorevole Casellati, prima Presidente del Senato italiano, sempre sul Sole 24 Ore, affermando che occorre “affiancare [alle quote di genere] una strategia legislativa e di governo più ampia e coraggiosa, sostenuta da una visione di lungo periodo che tenga conto anche dei profondi cambiamenti in atto”.

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Mentorship e sponsorship: due strategie dopo le quote di genere

Nel frattempo, come possiamo rendere le quote di genere in azienda veramente efficaci? Sheryl Sandberg, COO di Facebook e fondatrice del network internazionale Lean In che si propone di promuovere la leadership e la presenza femminile in azienda, propone due strategie chiave per far andare sempre più donne oltre il soffitto di cristallo: la mentorship e la sponsorship. Se, infatti, dice Sandberg, l’obiettivo delle quote di genere è quello di far entrare le donne nelle stanze dei bottoni, allo stesso modo è responsabilità di ciascuna di loro lasciare la porta aperta e portare con sé altre donne che se lo meritano. Come scrive Elisabetta Moro su Cosmopolitan, chi è contraria o contrario alle quote di genere solitamente porta come argomento principale proprio il merito: “Non voglio essere scelta per il mio genere, ma per le mie capacità!” , “Se introduciamo le quote rosa, che fine farà la meritocrazia?”. Ecco che, allora, entra in gioco l’elemento della responsabilità citato da Sandberg: se ciò che ci interessa davvero è la parità di rappresentazione tra i generi, anche se le quote rosa fossero davvero solo una forzatura del sistema, resta comunque nostra la responsabilità di far entrare più donne, meritevoli e competenti, possibili nei CdA, nei panel di qualsiasi evento, nelle squadre di governo e così via. Soprattutto, se già sediamo in una stanza dei bottoni e indipendentemente dal fatto di essere donne o uomini.

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