Verso la work life integration, per proteggere dal burnout ed evitare le discriminazioni di genere
Nonostante due anni di pandemia da Coronavirus abbiano inciso sulle modalità attraverso cui svolgere il proprio lavoro, costringendo a credere nello smartworking anche i dirigenti vecchio stampo, i più restii potrebbero chiedersi ancora: “Come posso sapere che le persone non guarderanno Netflix tutto il giorno?”. Ma questa domanda, se già era sbagliata prima, considerando solo il tempo come criterio di valutazione, rimane errata anche ora che lo smartworking non è più considerato una possibilità così “nuova” e ora che quasi nessun manager se la pone più.
Il problema infatti, come avevano capito bene alcuni datori di lavoro già dall’inizio, non è Netflix. Il vero pericolo invece è che senza una separazione fisica tra il luogo di lavoro e quello del resto della vita, le persone non smettano mai di lavorare, rischiando di finire in burnout, che ha costi enormi sia per i dipendenti sia per le loro organizzazioni.
E anche se questo tipo di pericoli sono difficili da quantificare, alcune stime ci sono. Un anno fa a fare i conti era Bloomberg: in media la giornata lavorativa durava da una a tre ore in più, si facevano più riunioni e si mandavano anche più mail, almeno otto al giorno fuori dall’orario di lavoro. E secondo una ricerca di Monster.com soffrivano di burnout due lavoratori su tre, cioè il 69 per cento dei lavoratori intervistati, che corrispondeva al 20 per cento in più rispetto ai mesi precedenti al lockdown.
E i dati attuali non solo non smentiscono o invertono questa tendenza, ma ne fanno emergere un’altra. Secondo una nuova ricerca condotta e pubblicata da McKinsey & Company, lo stress da smartworking rimane pervasivo per tutti i lavoratori e le lavoratrici, ma lo è soprattutto per coloro che sono anche genitori.
I genitori che lavorano infatti si trovano ad affrontare un numero maggiore di fattori di stress e un’esposizione a questi più lunga, a causa dei molteplici ruoli che sono chiamati a coprire, rispetto ai non genitori. Di conseguenza hanno meno tempo per recuperare. Durante il sondaggio i genitori lavoratori hanno sottolineato che la causa principale dello stress è la mancanza di equilibrio tra lavoro e vita privata. I genitori infatti si identificano anche come i caregiver dei loro figli, soprattutto se si trovano in smartworking. Anzi, qualora ci fosse una distinzione nella coppia tra chi si reca in ufficio e chi invece lavora da remoto, una realtà lavorativa che non permette un buon work-life balance potrebbe provocare uno svantaggio per il genitore in smartworking.
Dall’indagine infatti emerge che i genitori che sperimentano sintomi di burnout maggiori sono quelli anche responsabili di tutti i lavori domestici, oltre al proprio lavoro. Queste responsabilità, che comprendono anche la cura dei membri più anziani della famiglia oltre che dei bambini, ricadono nella maggior parte dei casi sulle donne, che sono state anche le più colpite dalla riduzione del lavoro retribuito causato dalla pandemia. E anche se lavoratrici, se si pensa al gender pay gap, è facile capire come siano più spesso le donne a rinunciare o a ridurre il proprio lavoro. In molte famiglie si sceglie il genitore con il reddito più basso per far fronte a esigenze di cura. Tutto questo aggrava ulteriormente i sintomi di burnout.
La difficoltà si riscontra ancora di più per i genitori che ricoprono questo ruolo da soli. Uno studio dell’americano Wellesley College sulle madri single, ha rivelato che le mamme che vivono da sole con i propri figli, hanno sperimentato durante la pandemia un calo della produttività dal 57 al 47%, dovuto proprio alla responsabilità di cura dei propri figli.
Ma come sono stati riscontrati questi dati che preoccupano, così sono state avanzate anche delle soluzioni. Come dicono gli esperti della Harvard Business Review la chiave è un sistema strutturato in cui aziende e istituzioni mettano in atto una serie di azioni finalizzate a eliminare le situazioni che penalizzano chi ha qualcuno da accudire.
Le realtà aziendali quindi stanno progressivamente capendo come le sfide da vincere siano quelle della flessibilità. Le imprese migliori si sono rese smart, trovando una sintesi tra produttività e benessere dei dipendenti. Il futuro infatti non è più tanto il work life balance che rimane ancorato a una contrapposizione tra vita e lavoro, quanto la work life integration. Un’integrazione appunto che faccia sue l’ottimizzazione dei tempi, il coinvolgimento delle persone e la qualità nel realizzare i progetti come prerogative fondamentali.